Design: Recycling vs Upcycling. Ovvero, le molte vite degli oggetti
Immagini: vedi le didascalie
Collana della designer giapponese Eriko Unno. Il gioiello è realizzato con nastri magnetici ricavati da audiocassette magistralmente intrecciati e foglia d’oro. Foto © Eriko Unno
Design: Recycling vs Upcycling. Ovvero le molte vite degli oggetti
Chi si interessa un po’ di design avrà sicuramente incontrato più volte il termine “upcycling”, spesso usato come sinonimo di recycling. Diciamo subito che non si tratta del solito termine che suona cool ma significa poco o niente perché, invece, quella tra recycling e upcycling è una distinzione importante, che apre le porte ad un ragionamento più ampio sulla cultura materiale e su cosa sia “la sostenibilità” nel design, di prodotto e non solo.
Senza perdere troppo tempo è possibile fare un esempio pratico. Se prendo una bottiglia di vetro usata, la fondo, e col vetro fuso produco il diffusore di una lampada, parlo di recyling. Invece, se prendo la bottiglia, la pulisco, e con la stessa bottiglia realizzo il diffusore della mia lampada, sto facendo upcycling. In parole povere, mentre il recyling prevede il riutilizzo del materiale dopo un passaggio – fusione, frantumazione ecc. – che riporta il materiale allo stato di materia prima, l’upcycling prevede la creazione di un prodotto nuovo riutilizzando l’oggetto stesso, tutto o in parte, attraverso modalità creative, per uno scopo che può essere uguale o anche molto diverso da quello per cui era stato fabbricato. Marcel Duchamp lo chiamerebbe readymade, ma lo scopo dell’upcycling è differente da quello puramente artistico.
E’ chiaro che, prescindendo dalle considerazioni doverose sull’energia necessaria a ricavare materia riutilizzabile da un oggetto (*) – principio che sta alla base di ogni procedimento di riciclo – l’atto di riutilizzare un prodotto o una sua parte, senza dover fare una operazione di downcycling, corrisponde ad un atto concettualmente più interessante. Esiste ovviamente una modalità ancora più efficiente e si chiama “riuso” : se la bottiglia di cui sopra venisse lavata, igienizzata e riutilizzata come contenitore di liquidi sarebbe l’ideale. Ogni buon imbottigliatore casalingo di vino o di conserve sa di cosa parliamo, dato che la sua cantina è ricolma di barattoli e bottiglie di vetro pronti per un uso futuro. Quanto più l’oggetto è monomaterico e tecnologicamente semplice, quanto più il riuso è praticabile. Riutilizzare una bottiglia è facile, un computer guasto meno. Il che ci porterebbe al concetto di vita utile dei prodotti e di obsolescenza programmata, ma questa è un’altra storia.
Tornando alla distinzione fra recycling e upcycling, se volessimo buttarla in filosofia spicciola potremmo dire che con l’upcycling riconosce alle cose una seconda esistenza, ovvero gli oggetti possono rinascere sotto altra forma con un valore intrinseco quasi sempre più alto rispetto a quello che avevano nella loro prima vita. L’operazione di reinvenzione, a partire da parti di oggetti scartati, diventa un atto ancora più prezioso quando si tratta di pezzi che hanno una loro unicità o una storia. Molti di noi non ne hanno più memoria per questioni anagrafiche, ma fino a qualche decennio fa, soprattutto nella cultura contadina, quello che oggi definiamo “upcycling” si faceva comunemente, ad esempio prendendo le gambe di una sedia rotta e unendole ad altre parti per ottenere un tavolino, creando così oggetti magari un po’ fantasiosi ma assolutamente funzionali. E’ ovvio che non tutto possa essere upcycled, ma per quanto possibile si tratta di un sistema più efficiente, in termini di impatto ambientale, rispetto al riciclo puro e semplice.
Nonostante il termine sia stato coniato solo una ventina di anni fa, (**) alcuni importanti designers del Novecento hanno sviluppato progetti centrati sul tema del riuso degli oggetti: tra questi non è possibile prescindere da Enzo Mari, che nel 1992, con il kit “Ecolo” prodotto da Alessi, invitava provocatoriamente a realizzare vasi da fiori ricavandoli da contenitori usati per detersivi. Per ragioni e con intenti diversi è anche molto interessante l’apporto di Achille Castiglioni, che rifacendosi ironicamente alla pratica del readymade, già a partire dagli ’50, con il fratello Pier Giacomo, smonta e decontestualizza parti di oggetti – sella di bicicletta e sedile di trattore – e li utilizza per nuovi arredi.
Più di recente è fondamentale il percorso di Martino Gamper, designer-falegname di fama internazionale, che nel 2008 con la collezione “100 sedie in 100 giorni”(100 Chairs in 100 Days and its 100 Ways) ha avuto il merito di creare una sintesi fra base teorica e pratica progettuale, facendo dell’upcycling un tema riconosciuto e apprezzato.
Martino Gamper, a sinistra, una vista della mostra “Transformers” al MAXXI di Roma, 2015, foto © Inexhibit; a destra una sedia dalla collezione “100 Chairs in 100 Days and its 100 Ways”, 2008, © Martino Gamper.
(*) Facciamo due conti. Fondere un paio di bottiglie di vetro da 0,75 cl richiede circa 240Wh (più o meno quello che consuma un forno casalingo a 200° in una ventina di minuti)**. Può non sembrare molto, ma se consideriamo che l’abitante medio di un paese economicamente sviluppato acquista circa 130 tra bottiglie e contenitori di vetro all’anno (28,3 chili in peso, dato riferito agli Stati Uniti per il 2011; fonte: EPA – United States Environmental Protection Agency), significa un consumo energetico di oltre 7 KWh ed un’emissione di circa 40Kg di CO2 a persona. Il calcolo – che si può applicare a molti altri materiali “riciclabili” come ferro, alluminio, plastica, ecc… – è semplice: il vetro fonde a circa 1300 gradi Kelvin (la temperatura esatta dipende dal tipo di vetro), ammettendo una temperatura di partenza di 300 gradi Kelvin ed un calore specifico grossomodo di 0,24 Wh/kg °C , per fondere un chilo di vetro comune (circa 2 bottiglie da vino da 0.75l) ci vogliono quindi 240Wh. Se ipotizziamo di usare una centrale a gas naturale (quella più usata in Italia per produrre energia elettrica per il nostro forno di fusione), abbiamo prodotto circa 120 grammi di CO2.
(**) Il termine upcycling è stato coniato alla fine degli anni Novanta dal belga Gunter Pauli e dal tedesco Johannes Hartkemeyer (e poi sviluppato da McDonough e Braungart nei primi anni Duemila) in contrapposizione a quello di downcycling, ovvero il passaggio che nel processo di riciclo indica la riduzione del materiale di un prodotto in una forma basica, spesso di qualità inferiore a quella di partenza.
Ma quali sono le traiettorie più recenti dell’ Upcycling? E quale è il reale peso di questa pratica nel panorama del design più in generale? Attraverso gli esempi che seguono cerchiamo di mettere un po’ di ordine attraverso alcune ricerche e progetti. Questo articolo si propone di essere un contenitore in espansione, aperto ad accogliere nuovi contributi.
Quelli che seguono sono oggetti realizzati con materiali ricavati da prodotti scartati per usura o obsolescenza. In questi casi i materiali mantengono le loro qualità estetiche e sensoriali e vengono scelti e combinati per dare vita a nuove cose. L’esito di questo tipo di approccio sono oggetti che combinano la serialità della produzione con la ricerca di unicità di ogni pezzo.
ll brand Eileen Fisher con “Renew” porta avanti la propria visione di una moda aderente ai principi dell’economia circolare recuperando abiti usati che vengono raccolti, ripuliti, sistemati e rimessi in commercio. A Milano nell’ambito della Milano Design week 2018, Eileen Fisher ha esposto arazzi, tappezzerie, abiti e accessori realizzati con gli scarti di lavorazione tessili e indumenti usati, invenduti o fuori moda.
sopra: ‘Waste no more’, la mostra di Eileen Fisher a Ventura Centrale, Milano, 2018, foto © Inexhibit.
Gli scampoli di tessuti sono spesso utilizzati per realizzare pezzi unici, vere e proprie opere d’arte. Basato su un approccio al recupero e al riuso, il lavoro di Christina Kim si fonda su pratiche artigianali tradizionali di tutto il mondo. Nella foto, a sinistra la gonna Eungie, disegnata da Christina Kim e prodotta da dosa inc. (Los Angeles, California) © dosa inc.;
a destra, Kibiso Tsugihagi, 2016, design di Reiko Sudo, realizzazione NUNO Corporation (Tokyo, Japan). Reiko Sudo è una delle co-fondatrici di Nuno, un’azienda di design tessile in prima linea nell’ innovazione, che unisce la tradizione artigianale giapponese con le tecnologie avanzate; foto courtesy of Cooper Hewitt Design Museum, immagini dalla mostra “Scraps” Cooper Hewitt Design Museum, 2017. © Cooper Hewitt Design Museum.
L’upcycling, nella sua forma più radicale – raccolta e rielaborazione di indumenti, mobili, piccoli oggetti – si presta particolarmente alla creazione di pezzi unici e irripetibili; in altri casi è il materiale – sia esso componente elettronica, scarto di lavorazione o rifiuto, che mantiene comunque una sua precisa riconoscibilità – a suggerire possibilità creative, permettendo anche la creazione di piccole serie.
sopra: Paola Sakr, “Impermanence vases”, collezione di vasi in cemento realizzati con pezzi di recupero ;via http://www.paolasakr.design/ ; https://www.inexhibit.com/it/marker/maison-object-paris-6-designer-libanesi-per-il-prossimo-rising-talents-awards/. Foto © maison object
sopra: Nelly Bonati, a sinistra collana della collezione col-lane in lana e tessuto; a destra, la collana realizzata con tessuto e scarti in plastica ritrovati sulle spiagge è stata presentata a Karlsruhe in occasione dell’evento “just plastics…new uses”, 2018. Foto © N. Bonati.
Federica Lusiardi – Terrestre re-lamps, sopra: lampada a sospensione / sotto, lampada modulare da terra della serie Terrestre 01S. In entrambi i casi i diiffusori sono realizzati con carta recuperata. Foto © Federica Lusiardi
Spark Architects, cuccia per cani formata con bottiglie in plastica usate. Realizzata per l’associazione benefica britannica Blue Cross for Pets. ttps://www.inexhibit.com/it/marker/londra-artisti-designers-creano-cucce-per-cani-per-beneficenza/. Foto © Blue Cross for Pets.
Serena Brigati. Collana realizzata con pezzi di schede madri recuperate. Foto © S. Brigati
L’upcycling non è limitato alla realizzazione di oggetti, da qualche anno viene veicolato anche attraverso allestimenti temporanei installati in luoghi molto frequentati per sensibilizzare il pubblico sul tema della sostenibilità ambientale.
sopra: Sa.und.sa, “Crazy shiny diamonds”, installazione interattiva realizzata con bottiglie in plastica recuperate nell’ambito di “Ri-Festival 2012”. Gli scarti stoccati nelle isole ecologiche del Centro Commerciale Campania sono stati selezionati e ricomposti per configurare alcune installazioni interattive esposte nelle gallerie del centro commerciale.
Immagini di studio Sa.und.Sa.(Salvatore Carbone, Sara Omassi) https://www.inexhibit.com/it/case-studies/installazione-crazy-shiny-diamonds/ Foto © Sa.und.sa
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